L’impresa in momentanea difficoltà
L’impresa insolvente: analisi economica e conseguenze giuridiche a pre e post COVID 19
Per la definizione di crisi, si sono spesi fiumi di inchiostro.
Con il limite che la quasi totalità delle suddette definizioni provenivano da giuristi; i quali si sono variamenti operati nel cercare di definire tale concetto, senza però rendersi conto di avere spesso sconfinato nell’aziendalismo senza l’utilizzo di concetti aziendalistici.
In economia aziendale la crisi di un’impresa si presenta in genere all’interno di un quadro economico caratterizzato da un ristagno dovuto o dalla contrazione dell’offerta (causata da sbagliate scelte imprenditoriali o da obsolescenza tecnica o di prodotto) o da una contrazione della domanda. In definitiva le difficoltà nascono sempre da uno squilibrio dovuto all’incapacità dell’impresa di procedere nella sua attività così come ha sempre fatto, generando blocchi in una organizzazione che non riesce più a funzionare come prima; arrestando quel sistema che precedentemente aveva portato buoni risultati e portando a una disgregazione degli equilibri e della funzionalità normale dell’impresa.
Tutto questo per affermare quindi che, sia nella definizione in negativo di impresa in crisi che in quella in positivo di impresa sana, i concetti da cui si parte quando si analizza tale entità sono concetti di carattere economico i quali nella loro dinamicità sono rimasti invariati e tuttora, nonostante l’evoluzione del mercato nel quale le imprese hanno operato negli ultimi settanta anni, e la contestualizzazione degli studiosi, hanno mantenuto immutato il loro valore.
Si aggiunga inoltre che la vita delle imprese si svolge normalmente in una alternanza di fasi positive e negative; da cui ne deriva che le situazioni di crisi, purché temporanee e risolvibili, sono componenti permanenti e fisiologiche del sistema produttivo moderno di libero mercato.
La maggior parte delle teorie aziendalistiche si basano sulla “Teoria di creazione del valore”, collegando da sempre il concetto di crisi a una riduzione del valore del capitale economico dell’impresa; il che implica che quando il suddetto valore diventa zero o addirittura negativo, il significato è che l’impresa, con la sua attività, non è più in grado di realizzare l’autogenerazione nel tempo, che è la sua finalità principale.
La crisi si manifesta quindi come una variazione negativa in termini di valore economico, e l’insolvenza come la totale perdita di quel valore; valore la cui fluttuazione dipende sia da fattori interni come una diminuzione dei flussi, sia da eventi esterni come la mutazione delle condizioni di rischio.
L’impresa, perdendo il valore del suo capitale economico, rischia anche di intaccare le risorse invisibili di cui essa dispone quali l’esperienza, la motivazione, le relazioni, le modalità di comportamento del personale, il suo grado di affermazione e la sua immagine all’esterno. In definitiva tutto ciò che la caratterizza e in base al quale si ritaglia una posizione nel mercato economico.
Nell’avvicendamento delle fasi di vita dell’impresa, sarà possibile trovarsi quindi in una di queste situazioni:
Disequilibrio finanziario ma mantenimento dell’equilibrio economico; si pensi a esempio a un’impresa sostanzialmente sana, in cui i ricavi soddisfino in maniera più che remunerativa i costi, ma che per una errata politica manageriale o anche più semplicemente per non esservi alternative di scelta, attui una politica di pagamenti e riscossioni che la ponga in situazione di squilibrio finanziario. In questo caso non si può assolutamente parlare di impresa in crisi (tantomeno insolvente).
Disequilibrio economico ma mantenimento dell’equilibrio finanziario; in questo caso l’impresa potrebbe trovarsi sia in una fase fisiologica che in una patologica. Nel primo caso pensiamo alla grande distribuzione alimentare che trae la redditività da un eccellente equilibrio finanziario ma che potrebbe essere in disequilibrio economico durante l’esercizio a causa della politica dei prezzi a ribasso, risolta poi dagli interessi attivi sul flusso finanziario conteggiati a fine anno. Nel secondo caso a un’impresa che sta avviandosi a una fase di contrazione dei ricavi ma che gode dell’equilibrio finanziario per la riscossione di crediti pregressi.
Disequilibrio sia dal lato economico sia dal lato finanziario; in questo caso la patologia è in corso.
Ma risulta fondamentale capirne lo stadio e lo stato d’avanzamento.
In definitiva:
l’indicatore di sintesi dell’equilibrio economico è rappresentato dal reddito operativo netto, al netto dei proventi della gestione finanziaria o della gestione straordinaria che non inficiano la capacità dell’impresa di produrre reddito per mezzo della propria attività. Nell’analisi di tale equilibrio entrano a far parte anche una pluralità di ulteriori profili derivanti da indicatori di natura contabile desumibili dai bilanci di esercizio che precisano l’esistenza dell’equilibrio economico.
La verifica dell’equilibrio finanziario vedrà invece l’analisi dei flussi finanziari, e più tipicamente il cash flow che indicherà in che misura i flussi delle entrate e delle uscite siano armoniosi nelle loro scadenze all’interno del sistema impresa. Uno dei principali fattori esaminati dagli studi di cash flow è sicuramente la capacità dell’azienda di reperire mezzi finanziari idonei, sia per quantità sia per qualità, al fabbisogno generato dalla gestione e alle rispettive condizioni di onerosità.
Lo squilibrio finanziario potrebbe essere legato a un’ipotesi di sottocapitalizzazione già in fase di avviamento dell’impresa o, all’aumento del fabbisogno finanziario conseguente a uno sviluppo rapido e finanziariamente non sostenibile dal risultato economico nel breve periodo; è palese che il ripristino dell’equilibrio finanziario, con immissione di nuovo capitale o di capitale di terzi, è sufficiente per risolvere la presunta condizione di crisi d’impresa.
Invece la crisi economica, legata a inefficienze organizzative, a prodotti non attrattivi, all’efficacia delle politiche di mercato, impone una reale rivoluzione all’interno del sistema impresa, poiché una semplice ricapitalizzazione che riporti l’equilibrio finanziario non può mai assumere un valore risolutivo in quanto non in grado di eliminare le cause delle perdite economiche.
Le crisi dunque sono comunemente dovute a squilibri tra costi ericavi, ossia a fatti economici che successivamente, con intervalli variabili a seconda dei casi, si traducono in fatti finanziari.
Ma, e qui l’errore di quanto scritto dai giuristi in merito alla crisi d’impresa, nella normativa si legge sempre di difficoltà finanziaria, difficoltà a far fronte agli impegni presi, difficoltà nei sei mesi successivi. In realtà, qualunque studioso di economia aziendale sa bene che il flusso finanziario di ritorno rispetto a una situazione economicamente solida va dai dodici ai diciotto mesi a seguito della catena gestionale ordine-produzione-consegna- fatturazione-riscossione.
Ecco che nell’analizzare la crisi siano i valori economici quelli doverosamente da prendere in considerazione; l’azienda potrebbe mantenere intatta la capacità istantanea di mantenere positiva l’equazione economica, ma compromettere nello stesso tempo la possibilità in prospettiva di continuare a produrre valore. Sta al management l’onere di non limitarsi ad un’analisi hinc et nunc, ma approfondire gli studi sullo stato di salute dell’azienda con una visione prospettica di redditività.
Di conseguenza il focus è sul reddito, o meglio sulla capacità dell’impresa di mantenere un equilibrioeconomico.
Quando si può parlare di insolvenza?
All’origine dell’irreversibile processo di decadimento aziendale viene posto un fenomeno di squilibrio e di inefficienza, che può avere origine interna o esterna; che porta a produzione di perdite di dimensioni sempre maggiori; che vedrà il deteriorarsi delle risorse dell’impresa anche in maniera formale, per esempio con l’annullamento delle riserve di bilancio e delle quote di capitale, con l’erosione della liquidità, con l’appesantimento dei debiti, con la riduzione delle risorse destinate a funzioni essenziali e con l’impossibilità di distribuire dividendi.
Con l’insolvenza le perdite prodotte andranno a intaccare il patrimonio aziendale; quindi l’incapacità di far fronte regolarmente agli impegni presi diventa una conseguenza, non una causa. Perché l’impresa in possesso del suo patrimonio economico è sempre in grado di far fronte agli impegni contratti.
Di conseguenza non è in crisi, o insolvente l’impresa che non è in grado di far fronte ai suoi impegni tout court; potrebbe essere un’impresa, come già scritto, in carenza di liquidità, ma economicamente sana.
La maggior parte delle imprese italiane, con la chiusura obbligatoria causa COVID 19, hanno visto bloccarsi i flussi economici, in quanto parte dei flussi finanziari hanno continuato ad arrivare poiché riferiti a movimenti economici precedenti alla chiusura.
Ma, l’ondata di fallimenti che ha colpito l’Italia dal 2008 a oggi, insieme al credit crunch, ha innescato un processo di selezione darwiniana che ha reso le imprese italiane meno indebitate e finanziariamente più solide. I dati e gli score di Cerved indicano che, di fronte agli impatti del COVID- 19, si presenta un sistema caratterizzato da un profilo economico-finanziario buono, con poche imprese ‘zombie’.
Ciò che manca alle imprese (e che probabilmente mancherà per un arco temporale da delinearsi fra i sei e i diciotto mesi) è la previsione della futura redditività, la quale è strettamente collegata non solo all’andamento del virus ma anche alla previsione di quante imprese siano e saranno in grado di reggere al momento di chiusura. E’ importante sottolineare come gli studi dimostrino che circa l’80% delle situazioni di crisi siano dovute in misura preminente a errori nella politica aziendale, e solo il 20% a cause esterne.
Sarebbe opportuno di conseguenza delineare tre fattispecie nelle quali possiamo oggi raggruppare le imprese italiane:
le imprese già in crisi;
le imprese in zona grigia o twilight zone;
le imprese in grado di reggere la contrazione di ricavi.
Per quanto riguarda le prime, molte cadranno sotto la selezione
darwiniana, non riaprendo o dichiarando la loro insolvenza nei primi mesi successivi alla ripartenza produttiva. Per le altre è palese l’opportunità di un’analisi che consenta di capire se l’impresa può essere posta nell’area crisi fisiologica o in quella crisi patologica.
Una scarsa o inesistente redditività degli anni precedenti il COVID 19, una evidente incapacità di autogenerazione dell’impresa sono un chiaro segnale che la stessa si trova in area rischio patologico e che lo squilibrio economico degli anni precedenti porterà inevitabilmente in reale insolvenza nel post COVID 19. Con la conseguenza che potrà essere proseguita l’attività produttiva con la stessa azienda solo se gestita con un nuovo assetto proprietario e di controllo; l’alternativa sarà liquidare i singoli asset aziendali per coprire le passività o pervenire alla dichiarazione di fallimento.
Diversamente, invece, se la verifica di bilancio evidenzia segnali di difficoltà legati a:
Crisi da inefficienza non strutturali: tale crisi si manifesta nel momento in cui una o più funzioni o business unit aziendali non hanno rendimenti in linea con quelli necessari, ma con la possibilità di un’area di intervento a correzione.
Crisi da sovraccapacità/rigidità: tale crisi è data dallo squilibrio tra le potenzialità produttive e organizzative e i risultati in termini di produzione e reddito. Nell’azienda si verifica quindi uno squilibrio tra ampiezza della struttura organizzativa e richiesta del mercato. In questo caso è sufficiente l’alienazione degli asset sovradimensionati. E’ una tipologia di crisi che può essere risolta con l’analisi del make or buy che fra l’altro consentirebbe la creazione di indotto e nuova imprenditorialità.
Crisi da decadimento dei prodotti/ carenze di programmazione/innovazione: tale crisi può essere al momento superata con gli strumenti posti in essere da Industria 4.0[27].
Le imprese in zona grigia sono imprese che hanno conosciuto nell’esercizio precedente momenti di difficoltà economica; in definitiva vale quindi anche per queste quanto indicato per quelle palesemente in difficoltà. Un’analisi del triennio precedente la verifica delle cause, le ricerca di eventuali soluzioni risanatorie.
Per queste imprese sarà più facile attuare una ristrutturazione: avviene nell’ambito delle combinazioni prodotti/mercati tradizionali e senza rilevanti variazioni dimensionali. Si realizza perseguendo il miglioramento dell’efficienza dei fattori produttivi essenziali, l’incidenza dei costi fissi di struttura e l’assetto finanziario – patrimoniale; una riconversione; un ridimensionamento; una riorganizzazione con un riposizionamento sul mercato dei prodotti o dei servizi offerti. Sia la dottrina che i casi pratici hanno dimostrato che le possibilità di successo dei processi di turnaround sono proporzionali al buon posizionamento strategicamente orientato dell’azienda.
Opportuno quindi identificare i tre elementi essenziali per il risanamento ossia le risorse necessarie per l’attuazione del piano, i tempi necessari e gli obiettivi prestabiliti: nuovi afflussi di capitale, interni o esterni all’impresa ivi compresi gli aiuti pubblici erogati in tempi necessariamente brevi per tutelare la continuità d’impresa, in una sorta di periodo di moratoria in attesa dei flussi finanziari positivi rientranti dopo il processo di risanamento. Il processo di risanamento potrà dirsi concluso soltanto quando l’intera impresa sarà posta nuovamente in grado di tornare a creare valore economico.
Il piano di risanamento dovrà contenere il conto economico e lo stato patrimoniale che saranno redatti in via previsionale considerando le aree d’affari in cui l’impresa andrà operare secondo il progetto. In questi documenti gli amministratori dovranno indicare gli interventi sull’attivo, sul passivo, sul ramo economico e sulla gestione aziendale necessari per riportare l’attività produttiva sui giusti binari.
A conclusione di queste considerazioni aziendalistiche pare chiaro che la situazione economica in cui si troveranno a breve le imprese non potrà prescindere dalle considerazioni sopra fatte. Anche in presenza di gravi squilibri economici e di conseguenza (o meglio, a conseguenza di) anche finanziari, non si potrà definire insolvente un’impresa il cui equilibrio economico è stato fino a ieri sostanzialmente solido.
Anche analisi più elaborate come quella predisposta da Altman e contestualizzata per le imprese italiane, dimostrano che in assenza di segnali di crisi economica consolidata nel tempo l’impresa non può essere definita in crisi patologica, quindi tantomeno insolvente; perché presentano caratteristiche di solidità nell’equilibrio esistente fra i costi e i ricavi d’esercizio.
I tribunali post 1° luglio 2020 dovrebbero pertanto accertare a mezzo di una rapida ctu, o basando la loro valutazione su attestazioni di professionisti indipendenti prodotte dalla parte interessata, se l’impresa era economicamente già decotta alla data del 9 marzo 2020 (inizio del lockdown) e, se l’impresa non risultasse già decotta in quel momento, perché sana o in zona grigia, nel senso che avrebbe ancora potuto rialzarsi senza il lockdown, dovrebbero rigettare l’istanza di fallimento per l’esistenza di una situazione non già di insolvenza, ma di temporanea illiquidità, peraltro determinata da “forza maggiore”.
All’impossibilità di dichiarare il fallimento potrebbe, peraltro, giungersi anche in via legislativa, come da più parti auspicato, attesa la situazione di preminente interesse generale, senza dover costringere i tribunali a prendere decisioni a macchia di leopardo, con pessime conseguenze in termini di certezza del diritto e di tenuta del sistema economico.
Al rigetto dell’istanza di fallimento per temporanea illiquidità potrebbe sostituirsi un lungo rinvio, per verificare all’esito lo stato economico dell’impresa, con l’inconveniente però di appesantire il lavoro della cancelleria senza una reale necessità di tenere pendente il processo, posto che l’istanza può sempre essere ripresentata se l’impresa non si rialza, e comunque l’assenza di controlli esercitati medio tempore dal tribunale renderebbe poco costruttivo il mero rinvio.
Si è parlato, a tal fine, di amministrazione controllata, o si è proposto di far funzionare già gli OCRI previsti dal Codice della Crisi, in una forma semplificata di OCC-COVID-19 (Organismi di Composizione della Crisi causata dal COVID-19), mediante la nomina di uno o più professionisti della crisi d’impresa, con i compiti di accompagnamento ridetti, ma altre soluzioni nominali sono possibili, come anche una sorta di commissariamento dell’azienda (nomina di un commissario ad acta), con compiti limitati alla conduzione dell’azienda fuori dalla crisi insieme all’imprenditore, oppure con mere funzioni di vigilanza sulla gestione.
Ciò che conta, al di là del nomen prescelto e del contenitore giuridico, è la sostanza dell’affiancamento all’imprenditore, in chiave quanto meno di vigilanza, di uno o più professionisti che da un lato diano (ove occorra) consigli e dall’altro vigilino sull’uso dei fondi statali, portando l’imprenditore fuori dalla crisi, ed evitando comunque la dichiarazione di fallimento, a simiglianza di quanto avviene oggi nelle procedure di preconcordato, in cui il precommissario ha essenzialmente compiti di vigilanza e, latamente, di indirizzo sul corretto modo di procedere verso la presentazione del piano di concordato.
Si potrebbe prevedere anche un sistema di autorizzazioni del tribunale per gli atti più rilevanti, quanto meno per quelli di straordinaria amministrazione.
In ogni caso, come è stato già acutamente segnalato in dottrina, nella fase di accertamento del presupposto della temporanea illiquidità, che darebbe luogo alla fase successiva di accompagnamento dell’impresa fuori dalla crisi con i contributi dello Stato e la vigilanza del tribunale, non dovrebbe farsi questione di lana caprina per distinguere tra imprese sane che sono entrate in crisi esclusivamente per la pandemia (ed il conseguente lockdown) ed imprese che, a causa della chiusura totale delle attività, hanno subito l’ultima spallata, senza la quale si sarebbero ben potute rialzare, posto che, di questi tempi, ed è bene che ce ne facciamo tutti una ragione, deve senz’altro prevalere su ogni altra considerazione il favor debitoris, immaginando persino, ma sono scelte legislative, che si giunga, opportunamente e ben ponderando i casi in cui lo si possa fare, alla cancellazione del debito (verso l’Erario, verso i privati), che poi è quello che l’Italia stessa chiederebbe per sé, se potesse, all’Europa.
Sarebbero, comunque, da evitare accuratamente soluzioni legislative che favorissero la circolazione dell’azienda in crisi da lockdown in un momento così delicato, sul presupposto che la stessa possa essere dichiarata fallita e quindi ceduta a terzi, con o senza un propedeutico affitto di azienda, e persino (si è detto) con il finanziamento dello Stato al compratore, invece di aiutare l’incolpevole imprenditore in crisi ad uscirne e a continuare a fare impresa, come è garantito dall’art. 41 della Costituzione: che libertà di impresa sarebbe quella per cui l’incolpevole crisi si traducesse in un esproprio legalizzato dell’azienda, rimandando a casa un buon imprenditore?
Questa discutibile opzione avrebbe come quasi certa conseguenza il trasferimento di molte aziende alla criminalità organizzata, che è sempre alla ricerca del miglior modo di impiegare i proventi del reato, o anche a fondi di investimento stranieri, o multinazionali danarose, verosimilmente cinesi o tedesche oppure olandesi, favorendo così la forzata colonizzazione delle imprese nazionali, e il fiorire di un triste mercato di consulenza d’affari (di supporto alle cessioni delle aziende improvvidamente dichiarate fallite).
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