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Brevi riflessioni sulla nozione di crisi e di insolvenza del debitore nel nuovo Codice della crisi d’impresa
Di Daniele Fico
Focus del 04 giugno 2019
Il D. Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 (Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza), accanto alla definizione di insolvenza, intesa come impossibilità per il debitore a far fronte alle proprie obbligazioni, contempla quella di stato di crisi, da intendersi come difficoltà economica-finanziaria, sufficientemente grave, da rendere probabile l’avverarsi dello stato di insolvenza. Tale nozione, tuttavia, è stata criticata da parte della dottrina che si è interrogata sulla utilità di una definizione legale di crisi.
SOMMARIO: Premessa , Crisi e insolvenza nel CCI , L’insolvenza prospettica , Sulla concreta utilità di una nozione di crisi , Conclusioni
Premessa
Il D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 – Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (di seguito CCI), pubblicato sulla G.U. n. 38 del 14 febbraio 2019, supplemento ordinario n. 6 – contiene, a differenza della normativa vigente che nulla stabilisce in merito, la nozione di crisi (art. 2, comma 1, lett. a), in esecuzione di quanto disposto dalla L. 19 ottobre 2017, n. 155 (delega al Governo per la riforma delle discipline della crisi d’impresa e dell’insolvenza, attuativo del disegno di legge n. 3671-bis), tra i cui principi generali l’art. 2, comma 1, lett. c, annovera la necessità di definire lo “stato di crisi” come “probabilità di futura insolvenza, anche tenendo conto delle elaborazioni della scienza aziendalistica, mantenendo l’attuale nozione di insolvenza” di cui all’art. 5 l. fall.
Sul tema, è utile ricordare, preliminarmente, che le riforme del 2005 e 2010 hanno introdotto nella legge fallimentare il concetto di “stato di crisi” come presupposto oggettivo per accedere alla procedura di concordato preventivo (art. 160, comma 1, l. fall.) ed agli accordi di ristrutturazione (art. 182-bis l. fall.), senza tuttavia darne una definizione. In tale ottica, è stato osservato come i concetti di crisi ed insolvenza si ponessero tra loro “in rapporto di genere a specie, nel senso che l’insolvenza rappresentava una delle forme (sicuramente la più grave) in cui poteva manifestarsi la crisi dell’impresa commerciale” (S. Ambrosini, Crisi e insolvenza nel passaggio fra vecchio e nuovo assetto ordinamentale: considerazioni problematiche, in ilcaso.it).
In ogni caso, come precisato dalla Relazione illustrativa alla novella legislativa, le definizioni contenute nel sopra citato art. 2 CCI hanno “finalità meramente esplicative o di sintesi” e, in quanto tali, presentano ampi margini interpretativi.
(fonte: IlSocietario)
Crisi e insolvenza nel CCI
Ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. a), CCI, la crisi è definita “lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate”.
Lo stato di crisi, in pratica, identifica situazioni di squilibrio economico–finanziario reversibile che, però, può determinare, ove non affrontate o affrontate in ritardo, la perdita della continuità aziendale, going concern secondo la terminologia anglosassone (cfr., per tutti, M. Libertini M., Accordi di risanamento e ristrutturazione dei debiti e revocatoria, in Autonomia negoziale e crisi d’impresa, a cura di F. Di Marzio, F. Macario, Milano, 2010, 382). Lo stato di crisi rappresenta, pertanto, uno stadio antecedente la perdita della continuità aziendale che, a sua volta, precede la situazione di insolvenza, definita dalla successiva lett. b) del primo comma dell’art. 2 “lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”.
L’insolvenza rispecchia, quindi, una situazione irreversibile che, alla luce della novellata normativa, darà origine al nuovo istituto della liquidazione giudiziale (espressione, quest’ultima, sostitutiva di quella tradizionale di “fallimento”), oltre che rappresentare il presupposto oggettivo per l’accesso alla procedura di concordato preventivo (ai sensi dell’art. 85, comma 1, CCI, infatti, al fine di proporre il concordato preventivo, l’imprenditore “deve trovarsi in stato di crisi o di insolvenza”).
Dalla lettura dell’art. 2, comma 1, lett. a) e b), si evince chiaramente “una marcata differenziazione” (in questo senso, S. Ambrosini, Crisi e insolvenza nel passaggio fra vecchio e nuovo assetto ordinamentale: considerazioni problematiche, cit., 28) sul piano concettuale delle definizioni di crisi ed insolvenza.
Crisi ed insolvenza, per altro verso, costituiscono il presupposto oggettivo del “sovraindebitamento”, definito dall’art. 2, comma 1, lett. c), CCI, appunto come lo stato di crisi o di insolvenza del consumatore, del professionista, dell’imprenditore minore, dell’imprenditore agricolo, delle start–up innovative di cui al D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, conv., con mod., dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221 e di ogni altro debitore non assoggettabile alla liquidazione giudiziale ovvero alla procedura di liquidazione coatta amministrativa o ad
altre procedure liquidatorie previste dal codice civile o da leggi speciali per il caso di crisi o insolvenza; chiara evidenza delle contraddizioni in cui il legislatore talvolta ricade (crisi ed insolvenza costituiscono altresì il presupposto per il ricorso ai piani di risanamento attestati ex art. 56 CCI).
Ulteriore conferma di tali contraddizioni si rinviene nel nuovo istituto dell’allerta dove il legislatore, da un lato, individua lo stato di crisi quale presupposto oggettivo delle procedure di allerta e della composizione assistita della crisi; dall’altro, qualifica come indicatori di crisi situazioni che, di fatto, sono sintomatiche dello stato d’insolvenza. Ai sensi dell’art. 13 CCI, infatti, tra questi indicatori sono evocati i “ritardi nei pagamenti reiterati e significativi”, che oggi, anche in relazione alla azione revocatoria fallimentare, costituiscono indice sintomatico dello stato di insolvenza (A. Rossi, Dalla crisi tipica ex CCI alla resilienza della twlight zone, in Fall., 2019, 293).
A ben vedere, pare lecito affermare che il discrimine tra il concetto di crisi e quello di insolvenza è rappresentato dalla irreversibilità dell’insolvenza medesima, definita nel corso degli anni dalla giurisprudenza come “condizione di impotenza economica nella quale l’imprenditore non è in grado di adempiere regolarmente con normali mezzi solutori le proprie obbligazioni per il venir meno della liquidità finanziaria e della disponibilità di credito necessari per lo svolgimento della sua attività” (Cass. 27 maggio 2015, n. 10952, in IlFallimentarista.it; Cass. 27 aprile 1999, n. 4277, in Fall., 1999, 297).
L’insolvenza non va tuttavia identificata con l’inadempimento che, come precisato dalla S.C., è un fatto e non uno stato: “l’insolvenza differisce dall’inadempimento, poiché non indica un fatto, e cioè un avvenimento puntuale, ma appunto uno stato, e cioè una situazione dotata di un certo grado di stabilità: una situazione risolta in una inidoneità da dare regolare soddisfazione delle proprie obbligazioni” (Cass. 20 novembre 2018, n. 29913).
A questo proposito, i giudici di legittimità hanno ulteriormente chiarito che lo stato d’insolvenza non presuppone “necessariamente, l’esistenza di inadempimenti, né è da essi direttamente deducibile, essendo gli stessi, se effettivamente riscontrati, equiparabili agli altri fatti esteriori idonei a manifestare quello stato, con valore, quindi, meramente indiziario, da apprezzarsi caso per caso, e con possibilità di escludersene la rilevanza ove si tratti di inadempimento irrisorio” (in questo senso: Cass. 15 dicembre 2017, n. 30209).
L’insolvenza prospettica
Negli ultimi anni, tuttavia, il dibattito sul concetto di insolvenza si è concentrato sulla prospettiva temporale al quale va riferito il suo accertamento. In tale ottica, si è discusso in relazione a se l’apertura di una procedura concorsuale sia subordinata all’esistenza di una incapacità patrimoniale eff
ettiva ed attuale da parte dell’imprenditore o se, al contrario, sia possibile la dichiarazione di fallimento anche sulla base di un giudizio prognostico in merito alla imminente evoluzione finanziaria ed economica dell’impresa (per un approfondimento, cfr. S. Ambrosini, Crisi e insolvenza nel passaggio fra vecchio e nuovo assetto ordinamentale: considerazioni problematiche, cit., 13 e ss.).
Quest’ultima tesi – definita insolvenza prospettica – è andata progressivamente affermandosi, sul presupposto che solo attraverso una valutazione prospettica dell’insolvenza è possibile distinguere tra stato di insolvenza e situazioni di mera difficoltà transitoria, come tali, reversibili e non definitive che, quindi, esulano dai confini del requisito oggettivo di cui all’art. 5 l. fall.
La valutazione dell’insolvenza in chiave prospettica sposta, dunque, “il fuoco dell’accertamento giudiziale dal semplice verificarsi dell’inadempimento (degradato a mero indice dell’oggetto dell’indagine) alle caratteristiche strutturali dell’impresa debitrice” (sempre S. Ambrosini, Crisi e insolvenza nel passaggio fra vecchio e nuovo assetto ordinamentale: considerazioni problematiche, 15 e s.).
In definitiva, pertanto, pare potersi ritenere possibile l’accertamento dell’insolvenza e la conseguente dichiarazione di fallimento dell’imprenditore che, pur avendo soddisfatto i creditori le cui pretese siano diventate esigibili, in un futuro prossimo si rivelerà con ogni probabilità non in grado di far fronte – in base ad una normale prospettiva di continuità aziendale – alle proprie obbligazioni; in questo modo prevenendo l’aggravamento del dissesto che, al contrario, si produrrebbe nel caso in cui l’apertura della procedura concorsuale fosse ritardata sino all’effettivo verificarsi degli insoluti.
Sul tema, è stato comunque osservato come l’attribuzione alla nozione di insolvenza di una capacità di proiettare la qualificazione del presente in una prospettiva futura sia del tutto analoga alla probabilità di crisi che, ai sensi della menzionata definizione di cui all’art. 2, comma 1, lett. a), CCI, “si declina in termini di inadeguatezza dei flussi di cassa prospettica” (A. Rossi, Dalla crisi tipica ex CCI alle persistenti alterazioni delle regole di azione degli organi sociali nelle situazioni di crisi atipica, in ilcaso.it. In senso analogo L.A. Bottai, Le modifiche al codice civile dettate dalla L. n. 155/2017 e l’affermazione del diritto concorsuale societario, in IlFallimentarista, secondo cui il periodo di emersione dell’insolvenza prospettica corrisponde alla definizione di crisi di cui all’art. 2, lett. a), CCI).
In tale contesto, quindi, l’insolvenza prospettica sembrerebbe avere un significato analogo allo stato di crisi come definito dal più volte citato primo comma, lett. a), dell’art. 2.
Tale definizione di crisi, in realtà, contiene sia un elemento propriamente definitorio, rappresentato dalla probabilità di insolvenza conseguente dallo stato di difficoltà economico-finanziaria; sia uno, di natura sintomatica, rappresentato dalla inadeguatezza, in prospettiva, dei flussi di cassa al fine del rispetto del piano dei pagamenti (S. Ambrosini, Crisi e insolvenza nel passaggio fra vecchio e nuovo assetto ordinamentale: considerazioni problematiche, cit., 22).
Sulla concreta utilità di una nozione di crisi
La nozione di crisi ex art. 2, comma 1, lett. a), CCI, è stata tuttavia criticata da parte della dottrina che si è interrogata sulla utilità di una definizione legale di crisi, ovvero sulla sua capacità di integrare effettivamente una fattispecie astratta tale da selezionare la disciplina in caso concreto, arrivando sino al punto di evidenziarne la sua probabile dannosità, a causa del fondato rischio che gli allarmi della crisi di fatto suonino quando c’è già stato di insolvenza (A. Rossi, Dalla crisi tipica ex CCI alla resilienza della twlight zone, cit.,
295. Critiche sono state sollevate altresì da G. Lo Cascio, Il codice della crisi di impresa e dell’insolvenza: considerazioni a prima lettura, in Fall., 2019, 264).
Alla base di questa opinione c’è la considerazione che la nuova disciplina si occupa di far emergere una situazione di crisi “tendenzialmente manifesta e terminale, bisognosa per l’appunto di un trattamento concorsuale”, senza al contrario preoccuparsi di disciplinare la fase di maturazione interna della crisi – c.d. “crisi atipica” – quando l’imprenditore o gli amministratori di società percepiscono che la situazione sta degenerando e che, in caso di mancato intervento sui costi, sulla struttura finanziaria, sui mercati, e così via, si profila all’orizzonte il probabile disallineamento dei flussi di cassa che, ai sensi del sopra citato art. 2, comma 1, lett. a), CCI, costituisce una probabile futura insolvenza.
In altre parole, con il novellato sistema normativo concentrato sulla emersione della situazione di crisi tipica, rimarrebbe comunque non disciplinato l’atteggiamento degli organi sociali di fronte ad una situazione di crisi atipica, che corrisponda ad una situazione di difficoltà dell’impresa non ancora riconducibile ad una probabilità di insolvenza e, in particolare, ad un attuale disallineamento dei flussi di cassa; “crisi atipica che qualunque gestore capace di fare il suo mestiere è in grado di rilevare, anche senza affidarsi in toto e passivamente al cruscotto di indicatori predisposto dal CCI, prima che la stessa degeneri in una probabile insolvenza” (A. Rossi, Dalla crisi tipica ex CCI alle persistenti alterazioni delle regole di azione degli organi sociali nelle situazioni di crisi atipica, cit., 8. Per A.M. Azzaro, Appunti sulla nozione giuridica di “crisi” d’impresa come stato di non insolvenza (irreversibile), in Fallimento, soluzioni negoziate della crisi e disciplina bancaria, diretto da S. Ambrosini, Bologna, 2017, 147, la nozione di crisi tipica ”appare all’evidenza un vestito troppo stretto a ricomprendere, in un unico concetto giuridico, tutte le situazioni che, siccome diverse dall’insolvenza irreversibile, consentono in vario modo all’imprenditore, sulla base della loro maggiore o minore gravità, di utilizzare i vari strumenti che l’ordinamento appresta per gestire le crisi d’impresa”).
Per tale dottrina, l’unica situazione in cui la nozione di crisi possa rivelarsi di una certa utilità, “nel senso di essere effettivamente in grado di costituire criterio di selezione della disciplina e discernimento tra il lecito e l’illecito” parrebbe essere rappresentata dalle norme sull’allerta e, in particolare, dal terzo comma dell’art. 18CCI che consente l’archiviazione delle segnalazioni ricevute dall’Organismo della Crisi di Impresa quando il collegio ritenga non sussistere la crisi (A. Rossi, Dalla crisi tipica ex CCI alla resilienza della twlight zone, cit., 294).
Per altri, costituisce un errore “l’aver voluto distinguere, a livello concettuale e giuridico, la crisi dall’insolvenza, laddove questa distinzione può essere utile tutt’al più per consentire, e non per impedire, l’accesso a determinati istituti di composizione delle difficoltà dell’impresa, e quindi per allargare lo spettro delle situazioni passibili di intervento e non per precludere” (A. Jorio, La riforma della legge fallimentare tra utopia e realtà, in corso di pubblicazione negli Studi in onore di Michele Sandulli).
Conclusioni
Dalle brevi riflessioni sopra riportate, si evince che la scelta del legislatore della riforma del diritto della crisi di impresa di offrire (per la prima volta) una definizione di stato di crisi, accanto alla già nota nozione di insolvenza (art. 5 l. fall.), al fine principalmente di favorire l’emersione tempestiva della crisi medesima, non parere aver portato, per ora, ai frutti sperati.
Le ragioni di questo “parziale insuccesso” vanno ricercate nella prossimità della crisi del D.Lgs. 14/2019 ad uno stato di vera e propria insolvenza, quanto meno all’insolvenza prospettica; con il conseguente rischio che l’accesso alle procedure di allerta venga attivato quando, in pratica, lo stato di crisi è oramai superato è l’impresa risulta insolvente.
In tale ottica, pare condivisibile l’affermazione secondo la quale la twilight zone (c.d. “probabilità di insolvenza”), ovvero il momento della vita della società che si pone a monte della manifestazione di un vero e proprio stato d’insolvenza (sul tema, P. Montalenti, La gestione dell’impresa di fronte alla crisi tra diritto societario e diritto concorsuale, in Riv. dir. soc., 2011, 820 ss.), sembra non essere ancora arrivata al tramonto e mantiene, pertanto, una proficua vitalità il dibattito dottrinale volto ad individuare le alterazione dei doveri degli organi sociali in un contesto di crisi non ancora qualificabile in termini di “probabilità di insolvenza” (A. Rossi, Dalla crisi tipica ex CCI alla resilienza della twlight zone, cit., 296).
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